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La banalità del bello e l’originalità del brutto

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CARRARA
Aneddoti e venature di una città di marmo ~ di Andrea Lattanzi

CAPITOLO #1

ARCIGNI DAL CUORE D’ORO

Se dovessimo descrivere Carrara con una figura retorica, allora dovremmo usare l’antitesi. Terra di monti, le Alpi Apuane, e terra di mare, quel Tirreno che pochi metri a nord comincia a chiamarsi mar Ligure. Città anarchica e libera, recitano i libri di storia. Eppure, capitalista e sostanzialmente schiava, fondata sull’estrazione del marmo e sulla dipendenza identitaria che da questa deriva. Le statue nelle piazze, le scalinate, i marciapiedi: tutto è marmo. E ovunque scritte sui muri, ricordi a bomboletta, “A” cerchiate a ribadire dove siamo. A Carrara la banalità del bello sta nel suo contrario: l’originalità del brutto.La decadenza che si respira fra i suoi vicoli si riflette nelle anime dei suoi abitanti. Sono tutto e il contrario di tutto. Arcigni e arrabbiati in volto, spesso nascondono un’insospettabile ilarità e gusto per la vita. Il grande Montesquieu parlò di loro nel suo Viaggio in Italia come dei «più rozzi e maleducati che esistano», dotati di una «volgarità senza pari». Ma chi abita all’ombra del Monte Sagro è, per cultura, persona di cuore, generosa nel midollo e pronta a sacrificarsi per chi è in difficoltà.

CAPITOLO #2

DI MARMO E DI LARDO

L’estate di Carrara è mediterranea, marittima e consolatrice. L’inverno è atroce, umido e solitario. Nell’antipasto della trattoria c’è il lardo di Colonnata, poi viene il pesce, con il baccalà. Ecco, Colonnata: 532 metri sopra il livello del mare, 350 abitanti e una ventina di larderie incastrate fra le montagne. “Ai compagni anarchici uccisi sulla strada per la libertà”, recita una lapide nella piazzetta centrale. Da qualche anno c’è pure un pavone, che in molti chiamano Ettore e che si aggira fra i vicoli del paesino. Blu elettrico, maschio del villaggio, era arrivato con due femmine dalla vicina tenuta di un industriale del marmo. Le femmine sono morte, lui no. È ancora lì e, a parte pavoneggiarsi e mangiare, non è ben chiaro come assolva i suoi bisogni primordiali.
Monumento al Cavatore - Fotografia di: Graeme Maclean
CAPITOLO #3

PRIMO DETTO PRIMINO: STORIA DI UN EROE (FORSE) MAI ESISTITO

Primo, detto “Primino”, era un uomo brutto e dalla voce stridula, che amava dare qualche tozzo di pane a Ettore. Lo scalciava pure, ogni tanto, ma con sostanziale bonarietà. Figlio di questa terra, sapeva a malapena leggere ma conosceva a memoria la rosa dei venti. Pelato, con le orecchie a sventola, scendeva ogni giorno a valle dalla strada di Vezzala e Bedizzano per infilarsi in una sala scommesse e puntare sui cavalli. Sempre i soliti: 1, 2 e 3.
Primino era malvoluto da tutti: non parlava mai e quando lo faceva criticava sempre qualcosa o qualcuno. Un giorno in mare, con la spiaggia affollata, un surfista ebbe un malore. Le onde erano molto alte e Primino, sorprendendo i presenti, si gettò in acqua per salvarlo. Era piccolo, ma tozzo abbastanza da resistere alla corrente. Lo raggiunse e lo portò indietro. Tutti circondarono il surfista per accertarsi delle sue condizioni: stava bene. A pochi metri, Primino periva nell’indifferenza generale. Dalle sue labbra morenti, solo pochi sibili: «1, 2 e 3: oggi tocca a me».